Decrescita InFelice (parte seconda)

Maggio 25, 2019 0 Di Francesco Cappello

Decrescita InFelice – seconda parte

Il decrescismo sembra muoversi in sintonia con gli interessi della oligarchia finanziaria (o perlomeno sembra subirne la propaganda) che si impone grazie al controllo mediatico e della formazione anche universitaria. Interessi esplicitati nella demonizzazione della spesa pubblica e in particolare degli investimenti pubblici (1). I decrescisti appaiono, generalmente, in buona fede; inconsapevoli, cioè, di avallare la logica corrente che ha ridotto lo Stato Comunità allo Stato minimo (sm) neoliberista a cui sono preclusi gli investimenti, impedendo alla banca centrale la possibilità di comprare il suo debito; tra i molteplici effetti negativi quello di spingere perché i servizi pubblici di interesse generale: istruzione, sanità, previdenza fossero affidati al mercato. Allo sm è significativamente affidato il monopolio della forza militare ovviamente nella forma di un esercito di professionisti al servizio delle élite, per il controllo del/i popolo/i, non più a loro difesa, ma a garanzia del rispetto, ad ogni costo, delle direttive imposte ai Parlamenti nazionali sempre più esautorati dal loro ruolo costituzionale. Uno sm, quindi, che si limiti ad intervenire solo per porre rimedio ai disordini di piazza e ai fallimenti di mercato, come di recente con i grandi salvataggi delle banche centrali, in soccorso alle grandi banche d’affari e al complesso del sistema finanziario: salvataggi pubblici, senza i quali il castello di carte della finanza speculativa globale sarebbe imploso. La base del movimento, generalmente inconsapevole di tale risonanza ideologica con la pratica neo-liberista, mentre ribadisce che il piccolo è bello, fatica ad individuare il vero nemico, limitandosi a generiche denunce relative a consumismo, spreco e rischi legati ai cambiamenti climatici, non avvedendosi di assecondare il progetto neoliberista inscritto nel Trattato di Maastricht (del tutto al di fuori del loro mirino) rispetto a cui funzionano da distrattori di massa. Non vedono o non vogliono vedere i grandi monopoli privati, né si oppongono alla loro avanzata malgrado  favoriscano fusioni e acquisizioni (banche popolari e BCC rese scalabili) per conto di grandi banche d’affari estere; né li preoccupa l’eliminazione della piccola proprietà, e il fallimento pianificato delle micro e piccole imprese, su cui si regge quel che rimane del nostro sistema economico. Lo stesso vale nei confronti degli enormi fondi di investimento speculativi, che gestiscono patrimoni dell’ordine di migliaia di dollari (Blackrock, Vanguard, Pimco, Fidelity, State Street ecc.), questi sì cresciuti a dismisura, nella forma di monopoli privati che agiscono indisturbati, su scala globale, grazie a deregolamentazioni da loro stessi promosse. Fondi composti da grandi banche d’affari e multinazionali che fanno corpo unico con le agenzie di rating che lavorano alle loro strette dipendenze e che hanno preso progressivamente il controllo dei mercati locali anche nell’economia dei servizi. Per tentare di capirne la natura si consideri che Blackrock (più di 6000 mld di patrimonio gestito) nel 2017 ha diritto di voto nelle 17mila aziende in cui compare come azionista in settori che vanno dall’energia, all’agroalimentare, trasporti, immobiliare, compagnie aeree, ecc. Possiede quote di debito pubblico di vari paesi tra cui il nostro. Primo azionista della Deutsche Bank (DB), secondo in Intesa San Paolo, presente in Bnp, in Enel, Eni, Telecom, presente in Unicredit, Banca Generali, Fineco (80 miliardi il patrimonio gestito nel nostro Paese). Cento miliardi in azioni investiti in Germania, 240 nel Regno Unito, 21 in Italia. Grazie alle consulenze e alle analisi del rischio che gli vengono affidate da banche, imprese, assicurazioni ed istituzioni pubbliche ottiene la possibilità di utilizzare a proprio beneficio i loro dati sensibili. Chiamato a effettuare stress test per conto, persino dalla Troika, e a proporre ristrutturazioni di istituti di credito, in palese conflitto di interesse, essendo spesso la maggiore azionista delle stesse banche (si pensi a DB e ai suoi gigaderivati che rischiano di destabilizzare l’economia europea e mondiale) su cui dovrebbe operare. I decrescisti, però, non sembrano interessati a prendere di petto questo modello economico speculativo ultrafinanziario e a studiarne anche solo l’impatto sulla tenuta degli ecosistemi planetari. Si pensi, per fare solo un esempio, che chi gestisce questi fondi, è strutturalmente impossibilitato ad ascoltare il grido di allarme dello studioso degli equilibri ecosistemici del pianeta che avverte che superata una soglia critica relativa alla rapidità di estrazione, ad esempio delle risorse ittiche dei mari, quel settore produttivo rischia di collassare; avendo, infatti, come scopo unico quello di far fruttare più velocemente possibile gli enormi patrimoni che gestiscono, guardano solo all’istante successivo e nel caso di collasso ed esaurimento per ipersfruttamento di una risorsa si limiteranno a spostare i loro investimenti altrove… (attività private in totale contrasto con l’utilità sociale – art.41-42 Cost.) 

Pallante indica nella spesa pubblica, di matrice keynesiana, inscritta nel titolo 3 della Costituzione, il male da mettere all’indice (1). Se ne deve dedurre che sono costi da evitare anche i 300 miliardi di euro necessari ad affrontare il dissesto idrogeologico di cui soffre il territorio italiano, così come la spesa pubblica per gli interventi di tutela e manutenzione del patrimonio culturale italiano?
Il movimento della decrescita, non si pone la problematica dei servizi pubblici, oggetto di insostenibili riduzioni di spesa, da parte di uno Stato che, intrappolato dalle ricette neoliberiste, sembrerebbe volersene del tutto disfare, pensandoli come fattori improduttivi, fonte di spreco di denaro pubblico. Né intende opporsi alla loro mercificazione e intensa deregolamentazione che ne fa terreno di investimento di capitali finanziari, secondo la logica delle S.P.A. (2). le quali riducono la qualità dei servizi offerti a fronte di un aumento delle tariffe richieste ai cittadini. La giusta critica ai valori assolutizzati della società mercificata non grida alcun allarme a fronte dello smantellamento dello Stato sociale che corrisponde al disarmo di quei luoghi dove la logica del libero mercato insieme al culto dei valori mercantili possono essere neutralizzati. Il pensiero della decrescita rafforza quella confusione mentale generata dalla mistificazione del capitalismo neoliberista, liberoscambista, nella sua forma più libera dai freni delle democrazie sociali sovrane, che vorrebbe rimuovere dalla coscienza collettiva il fatto che lo scopo principale dello sviluppo economico sia quello di concretare ed attivare servizi pubblici efficienti e di qualità per tutti, insieme a salvaguardia, tutela e manutenzione dei beni comuni in una economia finalizzata alla massimizzazione del Bene Comune. Ecco il programma decrescista di F. Gesualdi del CNMS in piena coerenza con le teorie anti-sovranità (3): 


«Liberarsi dalla propria dipendenza dal mercato e dallo Stato non può naturalmente essere un processo lineare. Ancor meno lo sarà liberarsi dall’idea che qualcuno, altri debbano governare per nostro conto. L’educazione moderna nasce per costruire quella specie di fantasma concettuale chiamato “Stato-nazione” e che si pensava potesse prendersi cura dell’affermazione della dignità nella vita di tutti. Quel fantasma alimenta dunque “di per sé” nazionalismi, populismi, neocolonialismi e relazioni sociali patriarcali e razziste.» 

Si dimentica che la sovranità moderna affermatasi prima nella rivoluzione francese e poi nella lotta al nazismo risiede e promana dal popolo (sovranità popolare democratica). Attaccare il concetto di Stato, nella sua accezione di Stato-nazione, è fuorviante se si perde di vista che «il superamento di questo concetto di Stato, prevaricatore degli individui in nome del concetto astratto di Nazione, strumentalizzato da una classe governante non democratica, sono nate le moderne democrazie costituzionali» (4).


La domanda essenziale: cosa, nei diversi modelli economici, impone l’obbligo alla crescita provocando gigantismi e dismisura non viene posta. Ci si limita ad un invito morale alla decrescita selettiva indicando esclusivamente nella autoproduzione e in quelle tecnologie utili a realizzare servizi migliori con efficienza maggiore, la via verso la salvezza. Il pensiero decrescista non sa indicare cambiamenti che vadano oltre la semplice ingiunzione morale rivolta ai singoli ovvero cambiamenti strutturali che possano realizzare un vero e proprio ribaltamento dello stato di cose come accade nella ben più organica proposta del movimento per l’Economia del Bene Comune (5).
Non si oppone alla concentrazione della ricchezza, della proprietà e dei mezzi di produzione. Non si adopera alla individuazione di quei processi che conducono a tali patologie né alla ricerca e messa in pratica di efficaci strategie necessarie a far sì che la massimizzazione del profitto ad ogni costo risulti non più desiderabile né perseguibile. Non pensa a come affrontare la piaga della disoccupazione. Si accontenta di indicare l’origine di ogni male nella ideologia della crescita e tanto basta. Non cerca l’uscita dal capitalismo. Si limita ad opporsi a qualche suo sintomo.  

Nella logica del MDF sembrerebbero ammissibili solo quegli interventi che comportando aumenti di efficienza con diminuzione di spreco energetico non provocano aumento del PIL. Il principale tormentone della decrescita felice, assurto a suo principio esemplificatore, è, infatti, la ristrutturazione energetica degli edifici raccontata come fosse una scoperta di quel movimento. In realtà già prevista, e non a caso, sin dal  1976,  con la legge 373, in seguito alla manifestazione della prima vera e propria crisi petrolifera, che avvertì il mondo dell’uso strumentale/politico della fonte fossile da parte dell’OPEC e della sua finitezza. Essa incentivava la ristrutturazione energetica degli edifici residenziali, industriali e terziari finalizzata alla riduzione della dispersione termica. Alla 373 seguì, 15 anni dopo, la ben più organica legge quadro 9 e la 10 del ’91 dal titolo “Norme per l’attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia”. Tale legge, nata con l’intento di ridurre i consumi di energia e di migliorare le condizioni di compatibilità ambientale delle trasformazioni energetiche, contribuì a diffondere la cultura e la pratica del risparmio energetico nonché l’uso razionale e consapevole dell’energia spostando l’attenzione sulle modalità di contenimento delle dispersioni termiche e l’innalzamento dei rendimenti termodinamici di secondo principio (6) dei sistemi impiantistici. 

Gli interventi di ristrutturazione energetica hanno una caratteristica importante. Nel corso del tempo l’ammortamento delle spese è garantito, con tempi di rientro prevedibili con precisione. Le spese rientrano e l’intervento di ristrutturazione energetica continua a dare i suoi benefici in termini ambientali (minore inquinamento a parità di servizio), di risparmio energetico e relativo miglioramento della qualità della prestazione degli impianti. Il lavoro necessario per gli interventi di ristrutturazione energetica si ripaga da sé. Esistono, però, tutta una gamma di interventi e relativa spesa per investimenti necessari alla comunità che non hanno necessariamente questa caratteristica. Investimenti non tesi alla produzioni di merci da collocare sul mercato. Si pensi alle spese per le nuove infrastrutture e per la manutenzione di quelle esistenti (l’Italia è prossima ad un crollo infrastrutturale), a quelle necessarie ad affrontare il dissesto idrogeologico e la messa in sicurezza degli edifici rispetto agli eventi sismici così come a quelle necessarie alla tutela e alla conservazione del grande patrimonio artistico o alla più consueta spesa per istruzione, ricerca, sanità, previdenza, giustizia, trasporti. Secondo i fautori della decrescita questo genere di interventi possono essere trascurati solo perché il loro fatturato risulta inferiore ai costi? Dobbiamo rinunciarvi, come peraltro sta accadendo, perché non saremmo in grado di remunerarne il costo del lavoro? Evitiamo di fornirli solo perché comporterebbero un aumento di spesa pubblica e di PIL che comportano crescita del debito? E si chiedono come realizzare i necessari investimenti in ricerca e sviluppo atti ad ottenere e diffondere brevetti di tecnologie sempre più performanti nella riduzione degli sprechi e dell’aumento dell’efficienza energetica, così come nell’uso dei materiali se l’investimento privato è sempre più ostacolato e anche l’intervento pubblico dello Stato frustrato dal mancato esercizio della sua sovranità monetaria tanto da impedirgli di concepire e finanziare scelte per il benessere economico, sociale ed ambientale impossibilitato come è ad effettuare qualunque entità di spesa pubblica necessaria a supportare ricerca e sviluppo finalizzata a qualsivoglia programmazione economica, politica industriale o piano energetico nazionale?
Viceversa, nel nostro Paese, per Pallante non è stato possibile lo sviluppo di una seria politica di risparmio energetico essendo che:

«L’ostacolo principale è il monopolio pubblico del mercato dell’energia elettrica e la situazione di oligopolio a livello internazionale, con una forte presenza pubblica a livello nazionale dei prodotti petroliferi»(7). 

La pensa diversamente, ad esempio, Benito Livigni, l’assistente personale di Enrico Mattei, che sull’argomento ha reso lucide testimonianze e denunce di grande importanza. 

I consumi crescono troppo; e i redditi, i patrimoni, il diritto di successione?

La decrescita non chiede limitazioni in merito alla disuguaglianza dei redditi. Fino a che punto è accettabile una disparità di trattamento nelle retribuzioni tra diverse mansioni? Oggi si misurano differenze nei redditi da lavoro fino a 300mila volte il salario minimo.

Le persone che accumulano enormi patrimoni finanziari acquisiscono un potere patologico (dominio) enorme. Possono infatti controllare i mezzi di informazione e influire pesantemente, a loro favore, sui processi della decisione politica. Non è forse, allora, necessario chiedersi sino a che punto i patrimoni privati o quelli aziendali possano crescere? Oppure vanno lasciati liberi di crescere indefinitamente? Non è forse individuabile in questa mancata limitazione una delle cause strutturali che consentono crescita a dismisura? Perché il movimento della decrescita felice non chiede una precisa limitazione del diritto di accumulazione nella forma dei patrimoni privati e aziendali

Esiste una proposta radicale che venga dal MDF relativamente alla necessità di una limitazione drastica del diritto di successione? Eppure uno dei meccanismi centrali che permettono la concentrazione illimitata della proprietà nelle mani di pochissimi consiste propriamente nella concessione di un diritto illimitato di successione agli eredi che consente la concentrazione ed accumulazione di patrimoni giganteschi laddove sarebbe necessaria la ricerca di strategie di ridistribuzione dei patrimoni, che risultassero al di sopra di una soglia critica, ai discendenti delle prossime generazioni. 

Siamo usciti dall’epoca della scarsità e questo è un bene per tutti ma siamo stati ricacciati nell’epoca della diseguaglianza – impostaci come fosse una naturale condizione umana – che concentra troppo nella disponibilità di pochi e toglie quasi tutto a moltissimi. Oggi un miliardo di persone sul pianeta vivono in condizioni di povertà assoluta, cinque milioni in Italia. È per questo che dobbiamo riaffermare con determinazione la pari dignità per tutti inscritta nei valori costituzionali. 

Dice Leopold Kohr (8) : In natura, la crescita è un mezzo per raggiungere la dimensione ottimale. Se qualcosa non ha ancora raggiunto la dimensione ottimale può ancora crescere naturalmente; saranno le condizioni al contorno a stabilire quali siano le dimensioni ottimali, raggiunte le quali, lo sviluppo può continuare su altri piani come, ad esempio, quello della crescita del numero e della frequenza delle relazioni tra i nodi della rete economica, come succede, ad esempio, nelle reti di mutuo credito e in generale per le aziende che perseguono la massimizzazione sistematica della produzione di bene comune, obiettivo fondamentale della rete di aziende del movimento dell’Economia del Bene Comune (EBC). Ogni organismo è un sistema complesso la cui crescita tende alla propria dimensione ottimale. Chi è troppo grande dovrà decrescere, chi è troppo piccolo dovrà crescere. Una economia che tenda alla piena occupazione e alla massimizzazione del prodotto del bene comune ha necessariamente struttura relazionale ecosistemica.

Dato che il profitto nell’EBC è solo un mezzo e non un obiettivo (9), le imprese possono raggiungere la loro dimensione ottimale. Esse non devono temere di essere fagocitate, né costrette a crescere, per diventare più grandi, più forti o più redditizie di altre. Tutte le imprese sono liberate dall’obbligo generale di espandersi e di subire, o effettuare, acquisizioni dei concorrenti. Ciò che conta è la crescita dei valori utili del bene comune. Con le parole di Danilo Dolci:


“ La crescita è un fenomeno naturale di tutti gli organismi viventi, un processo per mezzo del quale le cose entrano in relazione una con l’altra. L’apprendimento sociale è simile alla crescita e richiede uno speciale tipo di interazione tra le persone e un ambiente appropriato.”

I circuiti di credito commerciale, come il circuito sardex.net e simili (10), a partire dalla rimessa in discussione del ruolo della moneta, riportata all’originale senso Keynesiano della unità di conto, gestita in compensazione, hanno sperimentato virtuose crescite esponenziali della rete di relazioni che hanno saputo intrecciare, ricostruendo il tessuto produttivo saccheggiato dalla economia neoliberista, quale sistema immunitario contro la colonizzazione economica delle grandi multinazionali, capace di ridare vita e prospettiva alla economia locale.

(1) vedi  http://www.iskrae.eu/decrescita-felice-1a-parte/ 

(2)  Fare buoni investimenti per una azienda di utilità pubblica è strutturalmente difficile perché dovendo massimizzare i dividendi ai suoi azionisti rischia di scatenare la speculazione al ribasso. Paradossalmente il titolo dell’azienda guadagnerà in borsa nel caso in cui, ad esempio, annunci aumenti delle tariffe, tagli di personale, diminuzione degli investimenti o se ad esempio deciderà di non poter fare arrivare l’acqua a utenti troppo periferici e disagiati perché considerato troppo oneroso.

(3) http://comune-info.net/2017/06/un-mondo-comincia/ 

(4)  L.B.Caracciolo: http://orizzonte48.blogspot.it/2013/04/non-bisogna-mai-dimenticare.html 

(5)  http://www.economia-del-bene-comune.it/it

(6)  vedi Angelo Baracca «Manuale critico di meccanica Statistica» CULC 1980

(7)  L’uso razionale dell’energia Palazzetti, Pallante Boringhieri  

(8)  https://it.wikipedia.org/wiki/Leopold_Kohr 

(9)  https://www.francescocappello.com/2019/02/27/scopo-delleconomia-e-la-risposta-ai-bisogni-interni/

(10)  https://www.ibarter.com/  iBarter è una comunità di aziende che acquistano e vendono scambiandosi merci e servizi, non tramite denaro liquido, ma usando una unità di conto, l’iBcredit -crediti di baratto – ( 1iBcredit = 1 Euro ). https://www.digycross.it/ Network commerciale che permette un rapporto diretto tra aziende e consumatori con vantaggio reciproco. Si tratta di una economia mediata dalla rete che usa come unità di conto il Talento pari a un euro. Ogni produttore/consumatore gestisce una sua vetrina virtuale. Si paga e si acquista in compensazione. È attivo il sistema payback di fidelizzazione del cliente al circuito. Interagisce con circuiti analoghi costruendo metacircuiti che si rafforzano a vicenda. http://www.dropis.com/  Dropis è una comunità di persone, di artigiani e di piccolissime imprese che acquistano e vendono scambiandosi merci e servizi, non tramite denaro liquido, ma usando una unità di conto, i dropis – crediti di baratto- ( 1dropis = 1 Euro ).

Articolo pubblicato su Scenari Economici

Articolo pubblicato su Iskrae.eu