
Il piano Gideon’s Chariots: Gaza “sarà completamente distrutta” e la popolazione palestinese sarà spinta a migrare in massa verso paesi terzi. Israele sempre più autistico ed isolato
Nelle intenzioni dei sionisti, il genocidio sistematico del popolo palestinese che continua ininterrottamente da quasi seicento giorni, si svolgerà d’ora in avanti secondo un piano dal nome in codice, Gideon’s Chariots. Nel frattempo però il Medioriente sta rapidamente cambiando e l’Israele di Netanyahu potrebbe ritrovarsi del tutto isolata
La soluzione finale di Israele
La nuova dissonanza tra Trump e Netanyahu sui destini del Medioriente
Il Programma alimentare mondiale
E in Cisgiordania?
La soluzione finale di Israele
Il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato un piano che prevede una massiccia operazione di terra, in attesa di essere avviata se non si raggiungesse un nuovo accordo sugli ostaggi e il cessate il fuoco, entro i tempi della visita del Presidente Trump in Medio Oriente. La prima visita ufficiale di Trump in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Ararabi Uniti, di questo secondo mandato presidenziale, è prevista dal 13 al 16 maggio. Non è però prevista, come vedremo, alcuna tappa israeliana.
Il piano, che ha il nome in codice Gideon’s Chariots (I carri di Gedeone [1]), è mirato a sconfiggere completamente Hamas. Esso prevede che l’esercito israeliano invada Gaza con quattro o cinque divisioni corazzate e di fanteria per radere al suolo qualsiasi edificio rimasto tutt’ora in piedi, occupare e controllare tutta la Striscia oltre a dislocare e concentrare l’intera popolazione di 2 milioni di abitanti verso il sud della Striscia, in zone definite libere da Hamas, nell’area di Rafah, in enormi campi di concentramento a cielo aperto in attesa di una sua deportazione.
L’operazione rappresenta un cambiamento significativo rispetto alle precedenti tattiche israeliane, che prevedevano incursioni mirate seguite da ritiri. In questo caso, l’IDF (Forze di Difesa Israeliane) intende occupare e mantenere il controllo delle aree conquistate all’interno della Striscia di Gaza (vedi The WeeK)
Il piano si svolgerebbe in tre fasi. Isolamento delle forze di Hamas, posizionamento delle truppe e preparazione del campo di battaglia seguito da eliminazione sistematica della presenza di Hamas nelle aree urbane e mantenimento del controllo territoriale da parte dell’IDF e stabilizzazione, infine, delle aree conquistate, con la creazione di zone cuscinetto permanenti e la gestione diretta della distribuzione degli aiuti umanitari.
Secondo il piano, tutti i palestinesi che entreranno nell’area umanitaria saranno, infatti, sottoposti a screening per assicurarsi che non siano armati e non siano membri di Hamas. Secondo il FT, Israele ha annunciato l’intenzione di controllare direttamente la distribuzione degli aiuti umanitari attraverso una nuova struttura denominata “Gaza Humanitarian Foundation“, gestita dall’esercito israeliano e da appaltatori privati. L’ONU e tutte le organizzazioni umanitarie hanno, infatti, annunciato che non vi prenderanno parte perché considerano il piano una chiara violazione dei principi umanitari fondamentali perché finalizzato all’espulsione dei palestinesi e ad una evidente forma di pulizia etnica.
Ai palestinesi sarà, difatti, offerta l’alternativa che lascino il campo di concentramento “volontariamente” per altri paesi in linea con la visione che anche il Presidente Trump aveva manifestato per Gaza.
Tali “partenze” difficilmente potranno essere considerate volontarie, ed, infatti, nessun paese ha finora accettato di accogliere i palestinesi che saranno dislocati, sebbene i funzionari israeliani affermino che ci siano negoziati in corso con diversi paesi.
Il piano del governo israeliano è molto controverso anche a livello interno. Esso implica la mobilitazione di 70.000 riservisti, molti dei quali hanno già servito per oltre 300 giorni dal 7 ottobre in avanti. L’IDF è preoccupato che il 30-50% dei riservisti possa non presentarsi.
La maggior parte delle famiglie degli ostaggi israeliani si oppone con veemenza all’operazione, affermando che metterebbe in pericolo i loro cari. Sondaggi recenti hanno mostrato che il 60-70% degli israeliani si oppone all’occupazione di Gaza e chiede un accordo per porre fine alla guerra e liberare gli ostaggi. Gli stessi sondaggi mostrano che la maggior parte degli israeliani pensa che Netanyahu stia prolungando la guerra per proteggersi dalla giustizia rinviando indagini e pesanti processi giudiziari a suo carico.
Il ministro delle finanze ultranazionalista Betzalel Smotrich ha affermato che l’occupazione sarà permanente e che l’IDF non si ritirerebbe nemmeno in cambio della liberazione degli ostaggi. Con il piano si tornerebbe a una guerra su vasta scala dopo che Israele ha già interrotto tutte le forniture di cibo, acqua e medicine per i civili a Gaza, dopo la rottura del cessate il fuoco. La preparazione per l’operazione lascia una finestra di opportunità fino alla fine del viaggio del Presidente Trump nella regione per raggiungere un accordo sugli ostaggi e sul cessate il fuoco. Se non dovesse venir raggiunto alcun accordo, il piano verrebbe messo in atto.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu – che nel suo discorso al Congresso degli Stati Uniti aveva assicurato che “nessun civile è stato ucciso” a Rafah e a Gaza – già il 14 novembre 2023 aveva parlato della necessità di sostenere una “emigrazione volontaria degli arabi di Gaza verso i paesi del mondo”, suggerendo che la comunità internazionale avrebbe dovuto facilitare il reinsediamento dei palestinesi.
Il 5 maggio scorso, ha annunciato l’operazione militare “Gideon’s Chariots” con l’obiettivo di sconfiggere Hamas e mantenere il controllo su gran parte o tutta Gaza.
Ha dichiarato che la popolazione civile sarà spostata per la propria protezione (https://www.theguardian.com/world/live/2025/may/05/israel-gaza-yemen-middle-east-crisis-live-updates). Ha aggiunto che gli abitanti di Gaza “dovrebbero poter scegliere” di andarsene, definendo questa opzione come una “scelta per chi vuole un futuro diverso”.
Anche in occasione di un intervento a Gerusalemme durante una convention delle organizzazioni di ebrei americani, nel febbraio 2025, Netanyahu aveva già sottolineato che non si sarebbe trattato di uno sgombero forzato o di una pulizia etnica, ma di una scelta volontaria per coloro che desiderano un futuro differente. Perfettamente allineati con Netanyahu, seppure assai meno diplomaticamente, le figure dell ministro della Difesa, Israel Katz, il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich ed Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale [2].
Le dichiarazioni di Netanyahu e dei suoi ministri sembrerebbero inserirsi nel contesto del più ampio piano sostenuto da Donald Trump, che prevedeva la possibilità di trasferire volontariamente i palestinesi da Gaza verso altri Paesi. Netanyahu aveva infatti elogiato questo piano, definendolo “un’idea eccellente” e affermando che potrebbe “creare un futuro diverso per tutti” (vedi La Pace di Trump e Netanyahu – La diaspora dei palestinesi per far posto ad una Smart City che sia un paradiso, ma fiscale). Nel frattempo però le cose sembrano prendere tutt’altra piega.
La nuova dissonanza tra Trump e Netanyahu sui destini del Medioriente
Tra i due leader si registra un’interruzione dei contatti diretti, con Trump che manifesta chiari segnali di insofferenza nei confronti del Primo Ministro israeliano. Come abbiamo visto il tour mediorientale del presidente statunitense non prevede alcuna tappa in Israele. Netanyahu appare ora assai indigesto per gli attuali interessi americani nell’area, e Gaza rappresenta un forte punto di frizione con il piano sionista di deportazione della sua popolazione. Israele conferma di non avere alcuna intenzione di spegnere il focolaio del conflitto a Gaza mirando apertamente ad una deportazione dei palestinesi dalla Striscia ma questo approccio israeliano si scontra con l’attuale visione di Trump che considera la risoluzione del problema di Gaza una necessità assoluta, poiché finché la situazione rimane irrisolta, non possono essere stretti gli accordi economici essenziali a cui sta mirando con gli stati del Golfo. Trump cerca di ottenere ingenti investimenti e petrodollari dagli stati del Golfo finalizzando accordi che non dipendono dal loro riconoscimento da parte di Israele supportando al tempo stesso il programma nucleare civile saudita e possibilmente rilasciando una dichiarazione sullo stato palestinese, in linea con una visione pragmatica degli interessi americani nella regione [3].
L’altro elemento di grave contrasto è il tentativo israeliano di provocare un conflitto con l’Iran con un reiterato tentativo israeliano, entro maggio, di un attacco assai pesante sull’Iran con l’obiettivo di trascinare gli Stati Uniti in guerra. Questo attacco era previsto prima del cambio del comandante del Centcom, Michael Kurilla, che ne era a conoscenza. Tuttavia, Trump, informato di ciò, lo ha, almeno per ora, bloccato ed Israele non è ovviamente in grado di effettuare un attacco sull’Iran senza l’aiuto americano. La rimozione di super falchi anti-iraniani come il neocon Michael Waltz dal ruolo di consigliere per la sicurezza nazionale sembra confermarlo. Anche la decisione di rimuovere i bombardieri B2 dalla base di Diego Garcia è un altro segnale chiaro che gli Stati Uniti non desiderano più incoraggiare la guerra all’Iran divenuta per loro una prospettiva insostenibile. Trump sembra, viceversa, avere la necessità di concentrarsi sui fronti dell’Indo-Pacifico, dello Spazio (vedi Star Wars. La militarizzazione dello spazio), e dell’Artico ed evitare, perciò, di essere invischiato in guerre costose e improduttive come quelle che deriverebbero dalla realizzazione dei piani israeliani.
Israele risulta così sempre più estranea nell’area mediorientale, un’entità coloniale che esiste solo attraverso l’uso sistematico della forza e l’aiuto esterno. Esso pare essersi ficcato in un vicolo cieco, una spirale autodistruttiva assai pericolosa per gli stessi Stati Uniti. Così mentre Israele appare orientato a proseguire il conflitto a Gaza e a cercare lo scontro con l’Iran, gli Stati Uniti di Trump, per necessità economiche e strategiche, puntano a disimpegnarsi e a normalizzare la regione attraverso accordi economici e, si spera, un possibile riconoscimento palestinese, segnando così una rottura significativa con il passato. In pratica pare di assitere ad una inedita lotta tra la Israel Lobby, i gruppi neocon e le sette evangeliche che premono per un confronto militare con l’Iran e la corrente pragmatica all’interno dell’amministrazione statunitense guidata da Trump che vuole evitare un’ulteriore guerra e concentrarsi sugli interessi americani che non coincidono più con quelli del governo sionista ancora al potere in Israele.
Il Programma alimentare mondiale
La realtà del popolo palestinese è tuttavia sempre più tragica. Secondo una dichiarazione ufficiale del Programma alimentare mondiale, WFP, il 5 gennaio 2025, un convoglio composto da tre veicoli chiaramente identificati come appartenenti al WFP, e con a bordo otto membri del personale, è stato colpito da almeno 16 proiettili vicino al checkpoint di Wadi Gaza. «È stato preso di mira nonostante avesse ricevuto tutte le autorizzazioni necessarie dalle autorità israeliane», ha denunciato l’agenzia dell’Onu. Fortunatamente, nessun membro del personale è rimasto ferito, ma i veicoli sono stati immobilizzati. Il WFP ha descritto l’attacco come un “incidente orribile” e ha sottolineato la pericolosità delle operazioni umanitarie in tali condizioni. In risposta all’accaduto, il WFP ha temporaneamente sospeso i movimenti del proprio personale all’interno di Gaza, evidenziando le difficoltà e i rischi crescenti nell’assicurare assistenza umanitaria in un contesto di conflitto attivo.
Le Nazioni Unite hanno recentemente identificato circa 10.000 bambini a Gaza che soffrono di malnutrizione acuta dall’inizio dell’anno. I gruppi umanitari riferiscono che questo numero è in costante crescita. La malnutrizione nei bambini è particolarmente preoccupante, specialmente in contesti di crisi sanitarie o lesioni. La malnutrizione aggrava enormemente le problematiche mediche, rendendo il recupero più difficile e aumentando il rischio di complicazioni come nel caso delle vittime di ustioni e di infezioni specialmente in un ambiente dove la disponibilità di medicine essenziali come gli antibiotici è scarsissima.
A Roma, il 10 maggio in Piazza del Pantheon nel corso di una manifestazione il presidente della Comunità palestinese di Roma e del Lazio, Yousef Salman ha rilasciato queste dichiarazioni:
«Ormai questa comunità internazionale non riesce a fermare la bestia sionista che continua col suo genocidio, il suo sterminio del popolo palestinese. Il mondo non può andare avanti in questa maniera! La soluzione è facilissima. Basta applicare le risoluzioni delle Nazioni Unite, della legalità internazionale. La lotta dei palistinesi non è mai stata una lotta religiosa. Noi non abbiamo mai lottato contro gli ebrei perché sono di religione ebraica. Gli ebrei sono i nostri fratelli, con loro abbiamo convissuto per secoli e vogliamo continuare a farlo però la nostra lotta contro questo regime criminale che è stato persino condannato dalla Corte Penale Internazionale e questa comunità internazionale così impotente anzi complice perché Israele è semplicemente un progetto colonialista, capitalista, imperialista per questo gli Stati Uniti d’America sono il primo responsabile di questo genocidio perché continuano a sostenere, a dare appoggio, sostegno politico, diplomatico, economico, militare a tutti i livelli e quindi Trump non può chiedere lo spostamento della popolazione di Gaza. La popolazione di Gaza vive a casa loro, sulla loro terra e quindi la prima potenza mondiale dovrà per prima rispettare la volontà della Comunità Internazionale e delle Nazioni Unite.»
E in Cisgiordania?
Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha invocato bombardamenti in Cisgiordania come a Jabaliya (Gaza). Per il ministro dell’Energia Eli Cohen: «Jenin e Nablus devono essere trattate come Shujaiya e Beit Hanoun», due città di Gaza ormai rase al suolo (https://ilmanifesto.it/smotrich-colpire-la-cisgiordania-come-gaza-wfp-sotto-tiro?https://www.infopal.it/ben-gvir-riafferma-la-richiesta-di-incoraggiare-limmigrazione-volontaria-dei-palestinesi-da-gaza/).
A proposito di Cisgiordania consigliamo la visione di No Other Land, un documentario del 2024 diretto da un collettivo israelo-palestinese composto da Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor che ha vinto l’oscar come miglior documentario 2025. Il film documenta la distruzione della comunità palestinese di Masafer Yatta, situata nella Cisgiordania occupata, tra il 2019 e il 2023, prima quindi del 7 ottobre 2023. Attraverso immagini raccolte sul campo, il documentario mostra le demolizioni di case, gli sfratti forzati e le violenze subite dagli abitanti a causa dell’occupazione israeliana, in seguito alla dichiarazione dell’area quale zona di tiro militare.
[1] Il riferimento ai “carri di Gedeone” nel nome dell’operazione israeliana Gideon’s Chariots è simbolico e vuole dare riferimento a significati storici, religiosi e psicologici. Ovviamente il nome dell’operazione serve a rafforzare la narrazione di una guerra giustificata, necessaria e storicamente radicata, capace di ottenere vittoria anche in un contesto difficile. Il simbolismo biblico è usato nella retorica militare israeliana per collegare le azioni odierne ad una presunta eredità spirituale e culturale profonda. Gedeone, figura biblica dell’Antico Testamento (Libro dei Giudici, capitoli 6-8), è noto per aver sconfitto un esercito enormemente superiore con una piccola forza scelta di soli 300 uomini. Secondo il racconto, Gedeone ottenne la vittoria non attraverso la forza bruta, ma tramite strategia, sorpresa, fede e un’apparente inferiorità numerica che si trasformò in vantaggio. Nella narrazione biblica Gedeone non usò carri da guerra, ma torce, brocche e trombe. Tuttavia, nel linguaggio militare moderno, l’immagine dei carri suggerisce potenza, manovrabilità e avanzamento inarrestabile. Il tutto per dare una Legittimità religiosa e storica, attingendo alla narrazione ebraica della liberazione e della vittoria divina con il solito messaggio politico e psicologico rivolto all’opinione pubblica interna: Israele combatte una battaglia giusta, come Gedeone, ma con la forza moderna dei “carri”.
[2] Il ministro della Difesa, Israel Katz, aveva già ordinato all’esercito di preparare un piano per il “trasferimento volontario” degli abitanti di Gaza, includendo opzioni via terra, mare e aria per coloro che desiderano lasciare la Striscia . Inoltre, in un video messaggio, ha avvertito i residenti di Gaza che, se non avessero cacciato Hamas e liberato gli ostaggi, avrebbero affrontato la “distruzione totale”. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich ha, più esplicitamente dichiarato, lo scorso 6 maggio 2025, che Gaza “sarà completamente distrutta” e che la popolazione palestinese sarà spinta a emigrare in massa verso paesi terzi (https://www.theguardian.com/world/2025/may/06/hamas-israel-hunger-war-in-gaza). E ancora: Israele dovrebbe “incoraggiare l’emigrazione” dalla Striscia di Gaza, dovrebbe “occupare Gaza” e “incoraggiare” i 2,2 milioni di palestinesi della Striscia a emigrare entro due anni. Si è persino spinto ad invocare la “distruzione totale” di città come Rafah, Deir al-Balah e Nuseirat, citando un versetto biblico che richiama la cancellazione del nemico: “Cancellerai la memoria di Amalek da sotto il cielo“, citando un passo biblico che, nella tradizione ebraica, si riferisce al comando divino di distruggere completamente il popolo di Amalek, considerato un nemico storico di Israele
(vedi https://www.commondreams.org/news/smotrich-gaza-annihilation). Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale, ha sostenuto, il 2 gennaio 2024, la necessità di “fare ciò che è meglio per lo Stato di Israele: la migrazione di centinaia di migliaia da Gaza” . Il 21 dicembre 2024, durante una visita vicino alla barriera di Gaza, ha ribadito la richiesta di incoraggiare “l’emmigrazione volontaria” dei palestinesi, sostenendo che è un passo necessario per la sicurezza di Israele (https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/01/07/gaza-per-il-ministro-israeliano-la-soluzione-allordine-del-giorno-e-lemigrazione-volontaria-dei-palestinesi-dalla-striscia/7402986/).
[3] L’intenzione generale è quella di normalizzare il Medio Oriente per gli interessi americani, in modo da potersi concentrare altrove. Gli accordi sono considerati essenziali per gli Stati Uniti a causa delle loro condizioni economiche, avendo un grande bisogno dei petrodollari delle petromonarchie. Una caratteristica fondamentale di questi accordi, in particolare con l’Arabia Saudita, è che sono totalmente sganciati dall’eventuale riconoscimento di essi da parte di Israele. Questo rappresenta un netto disallineamento della politica estera statunitense rispetto agli indirizzi del governo israeliano. Gli stati del Golfo, in cambio, mettono sul piatto ingenti investimenti (600 miliardi di investimenti sauditi (con un potenziale aumento nei prossimi 10 anni) e 100 miliardi emiratini). Gli importi dal Qatar non sono ancora noti. Trump sembrerebbe intenzionato a sostenere l’avvio del programma nucleare civile messo in cantiere dall’Arabia Saudita. Durante la sua visita in Arabia Saudita, il Presidente degli Stati Uniti, secondo il Jerusalem Post, dovrebbe rilasciare una dichiarazione riguardante lo stato di Palestina e il suo riconoscimento senza Hamas. Se dovesse accadere una tale posizione, essa sarebbe in grado di modificare radicalmente l’equilibrio di poteri in Medio Oriente. Gli stati del Golfo non sembrano desiderare una guerra nella regione e hanno imparato che è più semplice convivere e fare piuttosto affari con l’Iran. A tal fine è in atto un “tentativo trasversale di disarmare” le milizie e le formazioni della resistenza nella regione (Libano, Siria, Iraq, Yemen), promosso da USA e Arabia Saudita, con l’obiettivo di “normalizzare” la situazione e consentire il ritorno al business.
Foto in copertina: The ruins of Beit Lahia in the northern Gaza Strip. Photo: Bashar Taleb/AFP via Getty
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