Nucleare italiano. No, grazie! Un bilancio a Corchiano

Nucleare italiano. No, grazie! Un bilancio a Corchiano

Maggio 8, 2025 0 Di Francesco Cappello

Appuntamento nella Tuscia, a CORCHIANO – Per Amore della nostra Terra – Per rispetto del nostro passato – Per speranza nel nostro futuro

Dopo l’incidente di Chernobyl nel 1986, l’Italia tenne un referendum nel 1987 (e successivamente nel 2011) in cui la maggioranza dei votanti si espresse contro il proseguimento del programma nucleare. Questo condusse fortunatamente alla chiusura delle centrali esistenti.

Nel frattempo l’Italia aveva costruito a partire dal 1963 fino al 1981 quattro centrali nucleari. A quella di Latina del 1963 seguirono Garigliano e Trino Vercellese nel 1964 e Caorso nel 1981. Latina rimase in funzione per 24 anni. Garigliano e Trino 18 anni e Caorso fu spenta e mai più riavviata dopo 5 anni.

La centrale di Latina, di piccola potenza (210 MW), dotata di un reattore Magnox di tecnologia britannica, riuscì a produrre energia per circa ventidue anni, ma la sua attività fu costellata da numerose interruzioni legate alla corrosione dei materiali, alla necessità di manutenzioni straordinarie e all’obsolescenza del reattore stesso, che già negli anni Settanta risultava superato rispetto agli standard internazionali. Nonostante fosse formalmente attiva fino al 1987, la sua produzione calò in modo significativo negli ultimi anni.

La centrale di Garigliano (160 MW), in Campania, rimase in funzione per circa dieci-dodici anni. Dotata di un reattore ad acqua bollente (BWR) di progettazione americana, fu soggetta a problemi tecnici frequenti e fu al centro di alcuni incidenti minori, tra cui uno nel 1978 che comportò la fuoriuscita di vapore radioattivo. Anche per questo motivo fu fermata in via definitiva già nel 1982, ben prima del referendum del 1987, e mai riavviata.

La centrale di Trino Vercellese, nota anche come Trino 1, con un reattore ad acqua pressurizzata (PWR) di tecnologia americana di 260 MW. Fu considerata all’epoca una delle più moderne in Europa, ma fu anch’essa interessata da fermi prolungati dovuti alla necessità di aggiornamenti tecnici e all’obsolescenza progressiva del reattore. In totale operò per circa quindici-diciassette anni, anche se non in modo continuativo. La chiusura definitiva arrivò nel 1987, in conseguenza del referendum popolare che sancì lo stop al nucleare in Italia.

La centrale di Caorso, in Emilia-Romagna, fu la più moderna e la più potente (860 MW) tra quelle italiane. Entrò in servizio commerciale solo nel 1981 e rimase operativa per appena quattro o cinque anni. Nel 1986, mentre si trovava in fase di manutenzione ordinaria, avvenne l’incidente di Chernobyl.

Montalto di Castro era in costruzione ma non fu mai completata.

La produzione complessiva di energia elettrica delle centrali italiane, durante tutta la loro attività, è stimata tra 90 e 100 TWh.
Se si considera che l’Italia oggi consuma da 300 a 320 TWh di energia elettrica ogni anno le centrali italiane nel corso della loro ventennale attività hanno prodotto il fabbisogno di poco più di 3 mesi del fabbisogno attuale.

In compenso hanno prodotto 90 mila metri cubi di scorie radioattive di cui 17 mila ad alta attività.
I rifiuti radioattivi ad alta attività [1] sono una delle principali eredità problematiche dell’energia nucleare. Il loro trattamento richiede infrastrutture sofisticate, risorse ingenti, tempi lunghissimi e, soprattutto, soluzioni che restino sicure per generazioni future, anche in assenza dell’intervento umano.

Il combustibile esaurito più pericoloso (come quello di Caorso e Trino) è stato parzialmente inviato all’estero (Francia e Regno Unito) per essere ritrattato, ma i residui radioattivi devono tornare in Italia per lo smaltimento finale, come da accordi internazionali.

Ad oggi, l’Italia non ha ancora un Deposito Nazionale per lo smaltimento delle scorie, e i rifiuti sono temporaneamente stoccati in oltre 20 siti sparsi sul territorio, sotto la gestione di Sogin (Società Gestione Impianti Nucleari) che prevede la costruzione di un’infrastruttura di superficie destinata a:
• Smaltire definitivamente circa 84.000 metri cubi di rifiuti a molto bassa e bassa attività.
• Stoccare temporaneamente circa 14.000 metri cubi di rifiuti a media e alta attività, in attesa della loro sistemazione definitiva in un deposito geologico.

Il sito ospiterà anche un Parco Tecnologico dedicato alla ricerca nel campo del decommissioning nucleare e della gestione dei rifiuti radioattivi. Sogin prevede un investimento complessivo di circa 1,5 miliardi di euro per la realizzazione del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi e del relativo Parco Tecnologico.

L’iter per la realizzazione del Deposito Nazionale ha subito numerosi ritardi. Dopo la pubblicazione della Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (CNAPI) nel 2021 e la successiva consultazione pubblica, è stata elaborata la Carta Nazionale delle Aree Idonee (CNAI), che individua 51 aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito [2]. Tuttavia, la procedura di Valutazione Ambientale Strategica (VAS), avviata nel novembre 2023, è ancora in corso e rappresenta un passaggio fondamentale per la finalizzazione della CNAI.

Recentemente, il governo ha espresso l’intenzione di abbandonare l’idea di un unico deposito nazionale, valutando invece la possibilità di realizzare più siti di stoccaggio. Questa decisione potrebbe ulteriormente allungare i tempi di realizzazione, già posticipati più volte: l’apertura del deposito, inizialmente prevista per il 2025, è stata rinviata al 2030, poi al 2032, e attualmente si parla del 2039.

Situazione attuale dei rifiuti radioattivi

In assenza di un deposito nazionale, i rifiuti radioattivi italiani sono temporaneamente stoccati in oltre 20 siti sparsi sul territorio nazionale. Questi includono rifiuti derivanti da attività nucleari civili, mediche, industriali e di ricerca. Inoltre, l’Italia ha l’obbligo di rientrare in possesso dei rifiuti radioattivi precedentemente inviati all’estero (Francia e Regno Unito) per il riprocessamento, entro il 2025.

Nonostante questo stato di cose, il governo di G. Meloni, sta pianificando un ritorno all’energia nucleare attraverso “tecnologie avanzate” (vedi il mio Nucleare. È ora. L’Italia è pronta? Piccolo non è necessariamente bello) e investimenti mirati, con l’obiettivo di diversificare il mix energetico dopo aver rinunciato alle forniture russe su imposizione atlantica e raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione ( vedi il mio Come le centrali nucleari contribuiscono al riscaldamento della biosfera. La doppia faccia del nucleare tra civile e militare) imposti dal green deal europeo.
Il Consiglio dei Ministri ha, infatti, approvato una legge delega che conferisce al governo l’autorità di adottare decreti dettagliati per la “transizione energetica”, con l’obiettivo di completare il processo entro la fine del 2027. L’energia nucleare dovrebbe contribuire, nei piani del governo, tra l’11% e il 22% della fornitura di elettricità del Paese entro il 2050, secondo il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC).
Il governo prevede di allocare 20 milioni di euro all’anno dal 2027 al 2029 per investimenti nel nucleare. È in fase di costituzione una nuova società a controllo statale che coinvolgerà Enel, Ansaldo Nucleare e Leonardo, con la selezione di un partner tecnologico internazionale ancora in corso. Inoltre, lo Stato italiano potrebbe investire 200 milioni di euro nella startup Newcleo, acquisendo fino al 10% del capitale della società.
Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) ha espresso preoccupazioni riguardo alle tecnologie ancora in fase di sviluppo, ai costi elevati e alla difficoltà di trovare siti adatti a causa del rischio idrogeologico e sismico del Paese però Calenda insiste e ne vuole otto subito. A nessuno viene in mente che così come ci mancano petrolio e gas siamo privi di uranio? (vedi il mio E l’uranio per le centrali? E quello per le bombe?).

Noi diamoci appuntamento nella Tuscia, a CORCHIANO, “per difendere la nazione italiana dal poter divenire la principale DISCARICA DI RIFIUTI NUCLEARI di tutta l’Europa. Ci impongono politiche GREEN, condivisibili o meno, ma poi ci vorrebbero inondare degli scarti INQUINANTI di una tipologia di energia, quella NUCLEARE, a cui “IL POPOLO ITALIANO HA già DETTO NO NEL REFERENDUM DEL 2011!!!”

Ci saremo
Per Amore della nostra Terra
Per rispetto del nostro passato
Per speranza nel nostro futuro

addendum

[1] I rifiuti radioattivi ad alta attività (o ad alta intensità, in inglese high-level waste – HLW) sono scorie nucleari che contengono un’elevata concentrazione di radionuclidi a lunga emivita e che generano una notevole quantità di calore a causa del decadimento radioattivo. Sono i più pericolosi e complessi da gestire tra tutte le categorie di rifiuti radioattivi. Si tratta principalmente dei residui altamente attivi del combustibile nucleare esaurito, che può essere:

  • Non ritrattato, cioè direttamente estratto dai reattori e messo in deposito;
  • Ritrattato, con separazione di uranio e plutonio riutilizzabili, ma lasciando un residuo altamente radioattivo.

Contengono isotopi come cesio-137, stronzio-90, plutonio-239, americio-241, che possono rimanere radioattivi per migliaia o decine di migliaia di anni. Le problematiche principali nella gestione di questi rifiuti sono:

1. Radiotossicità elevata e prolungata
Il rischio radiologico di questi materiali è altissimo e permane per tempi lunghissimi. Questo impone sistemi di confinamento che devono rimanere stabili e sicuri per millenni, ben oltre ogni normale pianificazione ingegneristica.

2. Calore residuo (decadimento termico)
I rifiuti HLW continuano a generare calore anche dopo l’estrazione dal reattore. Questo richiede sistemi di raffreddamento attivo o passivo per decenni, affinché la temperatura si abbassi a livelli gestibili per lo stoccaggio definitivo.

3. Necessità di soluzioni geologiche profonde
Per il loro smaltimento definitivo, non è sufficiente un deposito superficiale: serve un deposito geologico profondo (deep geological repository), scavato in strati rocciosi stabili, capace di isolare i rifiuti dal biosistema per tempi lunghissimi.

4. Assenza (in molti Paesi) di un deposito definitivo operativo
Al momento, nessun Paese al mondo ha ancora in funzione un deposito geologico definitivo per HLW pienamente operativo, anche se la Finlandia (Onkalo) è la più vicina all’entrata in esercizio (prevista per il 2025-26). In Italia, dove non esiste nemmeno un deposito nazionale per rifiuti a bassa e media attività, il problema è ancora più lontano dalla soluzione. Il trasporto e la localizzazione di impianti di stoccaggio HLW sono estremamente controversi. C’è legittima opposizione pubblica per timori di incidenti e problemi legati alla fiducia nelle istituzioni e nel controllo a lungo termine.
[2] La Carta Nazionale delle Aree Idonee (CNAI), pubblicata dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) il 13 dicembre 2023, individua 51 aree in Italia potenzialmente idonee per ospitare il Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi e il relativo Parco Tecnologico.
Queste aree sono distribuite in sei regioni:

  • Lazio: 21 aree
  • Basilicata: 10 aree
  • Piemonte: 5 aree
  • Sardegna: 8 aree
  • Puglia: 1 area
  • Sicilia: 2 aree

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